venerdì 7 settembre 2012

lunedì 2 luglio 2012

Appello all'università

Il congelamento dell'atto aziendale ottenuto la scorsa settimana a seguito del nostro ricorso, impone di guardare al futuro del nostro ospedale e del sistema ospedaliero della provincia.

Prima della decisione che la Corte Costituzionale e il Consiglio di Stato dovranno pronunciare (chissà quando!) sul futuro del piano Chiodi-Baraldi, sarà difficile che la ASL possa adottare decisioni definitive nel senso della chiusura del SS. Immacolata. Ci pagherebbe il disastro sociale creato dalla chiusura di un ospedale che doveva restare aperto? Chi potrebbe onorare gli obblighi derivanti da responsabilità economiche o contabili di siffatte decisioni?

Dopo l'esito nel merito dell'ultimo ricorso (che non è stato rigettato, ma semplicemente sospeso con la sentenza depositata venerdì scorso), è opportuno che, per superare l'incertezza, si riprenda in mano la programmazione del 2008 che aveva dato un futuro e una missione ai tre presidi della ex ASL di Chieti.

Questa partita non è affatto di retroguardia come insegna, ad esempio, il Piano Sanitario del Piemonte, regione in Piano di Rientro che ha previsto nella sua programmazione approvata appena due mesi fa la possibilità di istituire ospedali distribuiti su più presidi come doveva essere per il sistema Chieti-Guardiagrele-Ortona.

Noi insistiamo con forza e chiamiamo in causa l'Università in questa fondamentale sfida che, anche da un punto di vista scientifico, può essere un interessante terreno di confronto per il mondo accademico.

Il Piano Sanitario del 2008 prevedeva l'aziendalizzazione del SS. Annunziata in una logica di integrazione dei tre nosocomi. La legge sul terremoto prima e la creazione della ASL provinciale poi hanno bloccato questo disegno. Sono decisioni che abbiamo denunciato nei nostri atti legali.

Il fallimento della programmazione di Chiodi, però, deve imporre una riflessione sul futuro in modo da uscire da questo stallo con una prospettiva che valorizzi e qualifichi l'esistente motivando gli operatori oggi lasciati allo sbando.

Tornando al rapporto con l'Università, nel fare gli auguri al nuovo rettore, il prof. Carmine di Ilio, preside di Medicina, con il quale lo scorso anno abbiamo avuto modo di approfondire questo argomento, è necessario che si comprenda che la formazione di una nuova classe medica di qualità può andare di pari passo con la promozione di un servizio sanitario che risponda alle effettive esigenze dei pazienti.

Mi domando se all'Università convenga fare ricerca e formazione all'interno di un presidio, quello di Chieti, che ormai squalifica la stessa dignità del paziente e impedisce,per le note condizioni di affollamento e degrado, di fare l'eccellenza cui il policlinico doveva essere vocato, o, piuttosto, all'interno di una moderna struttura come quella di Guardiagrele con la quale è possibile portare avanti un lavoro proficuo.

Se questo è stato possibile per la clinica psichiatria è altrettanto possibile per la geriatria universitaria, che trova spazio nella struttura di Guardiagrele, e può esserlo per tutti gli altri settori, anche dela diagnostica (laboratorio analisi e radiodiagnostica).

In questa fase che inibisce qualsiasi iniziativa che vada nella direzione della chiusura, quando ormai in tanti devono prendere atto del fallimento della politica di Chiodi, quando mancano ancora fondamentali snodi del servizio sanitario e quando sembra ormai chiaro che il futuro è nella integrazione dei presidi ospedalieri vicini, anche nella logica della differenziazione dell'intensità di cura, tutti gli attori sono chiamati a svolgere il proprio ruolo cercando di individuare anche nelle strutture "minori" occasioni di ricerca, sperimentazione, formazione che per varie ragioni possono dare ottimi risultati o, addirittura, profitto.

Ecco perchè l'Università va chiamata in causa e noi lo facciamo memori del contributo che professionisti della qualità di Filippo Maria Ferro (al quale abbiamo conferito la cittadinanza onoraria) possono dare alla sanità e alla scienza servendosi di strutture che possono dare molto.

Se Guardiagrele non ha avuto il futuro che tutti speravano spesso è stato perchè in passato si è considerata questa sede squalificante, ma noi oggi sappiamo che ciò che squalifica non è la sede nella quale si opera, ma le condizioni alle quali si è costretti a lavorare e simao certi che professionisti e servizi di qualità in tanto possono esistere in quanto hanno modo di nascere e svilupparsi in contesti come il nostro.

Ecco perchè proprio nei piccoli ospedali è possibile fare la sanità di qualità che il cittadino esige come diritto fondamentale.

Se la politica percepisse e spingesse verso questo obiettivo, è probabile che il modo di concepire la sanità anderebbe incontro a meno fallimenti.

lunedì 25 giugno 2012

lunedì 4 giugno 2012

Piccoli ospedali: un caso nazionale

Il Corriere della Sera di oggi ha dedicato un pezzo in Primo Piano (pagina 5) al tema dei piccoli ospedali.

Negli ultimi giorni ho avuto modo di confrontarmi più volte con la giornalista alla quale avevo segnalato, qualche settimana fa, che nessuno era andato alla radice del problema dei disservizi in sanità (era il periodo in cui la cronaca si concentrava sui Pronti Soccorso di Roma).

Sostenevo e sostengo che se i grandi ospedali sono ingolfati e non riescono a fare eccellenza è perchè si taglia indiscriminatamente e questi tagli hanno coinvolto i piccoli ospedali.

Ecco perchè, oltre che per altre ragioni giuridiche (le spiego dopo), i giudici amministrativi hanno bocciato le scelte dei commissari nelle varie regioni in piano di rientro.

Cinque sono le regioni nelle quali il Governo ha nominato i presidenti quali commissari per l’attuazione del piano di rientro dal debito sanitario (Abruzzo, Molise, Lazio, Campania e Calabria).

Nel corso degli anni 2010 e 2011 i Commissari hanno adottato i c.d. “Programmi Operativi” con i quali, secondo le previsioni della l. 191/2009, avrebbero dovuto garantire la prosecuzione dei Piani di rientro (firmati tra regioni e ministeri nell’anno 2007).

Con questi Programmi, però, i Commissari hanno drasticamente tagliato i posti letto e, quindi, hanno disposto la chiusura di numerosi ospedali, dai 24 della regione Lazio ai 5 della Regione Abruzzo. La necessità di tagli ai posti letto (pure “giustificata” dal patto per la salute siglato nel dicembre 2008) si è scontrata con la assoluta carenza di misure alternative o complementari. Ne sono derivate una pesante riduzione dell’assistenza sanitaria e un ingolfamento delle strutture rimaste aperte.

Va detto, però, che non tutti si sono adeguati alle decisioni dei Commissari. Infatti, Comitati e Amministrazioni comunali hanno impugnato questi atti sollevando numerose questioni che vanno ben al di là della pur legittima pretesa di difendere il diritto alla salute e all’assistenza delle comunità rappresentate, spesso coincidenti con le zone più interne delle regioni interessate e, quindi, messe gravemente in crisi dalle riduzioni dei servizi.

Va detto che i Programmi operativi sostengono la necessità – cui pure la stampa più avveduta fa riferimento – di investire sulla c.d. sanità del territorio attraverso il potenziamento dei distretti e delle competenze e funzioni dei medici di famiglia, ad esempio (cfr. CorriereSalute del 4.3.2012).

Tuttavia in tutte le regioni interessate il taglio di posti letto ospedalieri non è stato preceduto (perché così doveva essere per logica e per espressa dichiarata volontà dei commissari) dai necessari investimenti e ciò ha evidentemente scatenato l’unica reazione possibile, quella legale.

I ricorsi promossi si fondano essenzialmente su questi motivi:

1- i Commissari sono stati nominati per dare esecuzione ai piani di rientro contrattati nell’anno 2007 tra le regioni e il Governo; in nessuno dei piani di rientro delle regioni oggi commissariate si prevedeva la chiusura di presidi ospedalieri, ma, al massimo, la riduzione di posti letto. Nel momento in cui i Commissari adottano decisioni che configgono con il contenuto dei piani di rientro che essi sono tenuti ad attuare, è chiaro che vanno al di là del mandato ricevuto;

2- gli atti adottati dai Commissari sono atti di carattere amministrativo con la chiara conseguenza che essi non possono stabilire modifiche, sospensioni, abrogazioni o integrazioni di norme di legge regionale; in effetti, l’organizzazione del servizio sanitario regionale è disposta con legge regionale e, quindi, nessun atto amministrativo adottato dal Commissario può modificarne il contenuto perché è come se un decreto ministeriale cambiasse il contenuto della legge che deve applicare (questo principio è stato affermato dalla Corte Costituzionale);

3- i Commissari, nel momento in cui ridisegnano la rete ospedaliera regionale (disponendo la chiusura di intere strutture), esercitano un potere che non gli è attribuito né dalla legge né dal Governo che li ha nominati; la potestà di regolamentare il servizio sanitario regionale e, in modo particolare, quella di stabilire come organizzare la rete ospedaliera, appartiene al Consiglio Regionale che deve esercitarla con propria legge secondo le forme stabilite dalla l. 833/1978 e dal d.lgs 502/1992 (anche questo principio è stato riconosciuto dalla Corte Costituzionale);

4- la decisione di chiudere presidi ospedalieri si fonda su istruttorie spesso errate poiché si pongono a fondamento delle decisioni dati non rispondenti al vero; ad esempio in alcuni casi non si tiene affatto in considerazione la oggettiva realtà geomorfologia, demografica o epidemiologica nella quale un ospedale (spesso parliamo di presidi ubicati in zone interne) opera; insomma, gli atti commissariali dispongono la chiusura di presidi senza tener conto del fatto che, in mancanza di quei posti letto, la popolazione non trova in nessun’altra struttura una risposta ai propri bisogni di salute.

Questi argomenti sono stati recepiti dalla giurisprudenza amministrativa che in diversi casi ha condiviso le argomentazioni formulate nei ricorsi accogliendoli e mettendo, di fatto, in crisi i progetti degli Uffici Commissariali. La reazione del Governo (del quale i Commissari sono rappresentanti nelle rispettive regioni)non è mancata, come si vedrà per il caso (unico in Italia) del Programma Operativo della regione Abruzzo(prima bocciato dal TAR e, poi, resuscitato con un decreto legge).

venerdì 1 giugno 2012

Il prof. Ferro, cittadino onorario di Guardiagrele

Il conferimento della cittadinanza onoraria al prof. Ferro non va vissuto come un semplice (anche se certamente dovuto) omaggio a ciò che il Professore ha fatto. Per questo parla il suo curriculum e nulla va aggiunto. Se fosse così, del resto, staremmo qui solo per una circostanza formale e non per dare senso ai segni che compiamo.

Io vivo questa singolarissima circostanza come un motivo di impegno futuro per il Professore Ferro, per chi con lui ha collaborato, per chi lo ha seguito e per ciascuno di noi.

[In questa circostanza, poi, è come se si chiudesse un cerchio ideale che parte dalla storia più recente delle persone che negli ultimi anni sono diventate più guardiese grazie alla cittadinanza onoraria].

Essere cittadino vuol dire innanzitutto assumere obblighi verso la comunità; questo significato è ancor più carico di conseguenze se alla categoria della cittadinanza sostituiamo o affianchiamo quella della con- cittadinanza.

Se il Prof. Ferro oggi diventa cittadino onorario di Guardiagrele, al tempo stesso diventa con-cittadino di migliaia di altre persone che non solo risiedono in questa città, ma in essa lavorano, hanno investito per il proprio futuro.

E, se se è vero che ad ogni cittadino residente si chiede di rispondere a ciò che da questa condizione deriva, tanto più questo deve valere per chi questa con-cittadinanza la riceve in dono.

Certo, questa non è una trappola che abbiamo teso o, comunque, non è una trappola che abbiamo teso solo al protagonista di questa sessione straordinaria del consiglio comunale.

Quando, nel novembre scorso, ho ascoltato a Chieti le parole del Prof. Ferro in occasione del congresso internazionale, ma, soprattutto, ho visto la passione e la commozione con le quali ha pronunciato il nome della nostra città, mi sono chiesto se non fosse opportuno che anche lui potesse dirsi guardiese.

La cittadinanza, in effetti, non è un attributo esterno, ma è (dovrebbe essere) una condizione della persona che la costruisce e la fa agire in un determinato modo. Questo è il motivo per il quale la città “remunera” il Prof. Ferro con l’unica cosa che di più prezioso può dare: non un oggetto, non un riconoscimento effimero, ma la condizione per la quale – ripeto – il Prof. Ferro da oggi può dirsi (essendolo, nei fatti, già da tempo), un guardiese.

Due sono gli aspetti che, nel momento in cui ho pensato (e subito condiviso anche con il Prof. Ferro) l’idea di conferirgli la cittadinanza onoraria, mi sono venuti in mente: il fatto che il Prof. Ferro avesse portato il nome di Guardiagrele in prestigiosi consessi scientifici e la circostanza, non meno importante, che la presenza del SPDC a Guardiagrele ha fatto maturare una consapevolezza diversa delle relazioni umane.

Sul primo punto, mi limito a segnalare (soprattutto a chi guardiese non è né per residenza ne di fatto) che si può solo immaginare il senso di orgoglio che ogni guardiese prova al sentire il nome della sua città. Se, poi, questo avviene in una sede di elevato livello e da chi a quel livello conferisce prestigio, allora si può comprendere quanto questa motivazione sia pregnante.

E, si badi bene che non è qualcosa di effimero; è, anzi, qualcosa di altrettanto “denso” rispetto alla pure importante conseguenza (in termini di visibilità e risonanza che la città può avere), al pronunciare il nome della città e al segnalare che essa è sede del SPDC nel quale le teorie trovano applicazione e i volti anonimi assumono una identità, di generare negli ascoltatori l’interrogativo su come sia possibile che tutto questo si verifichi in un presidio di provincia. Senza dire, poi, della curiosità che sul nome della nostra città si concentra e che trova sfogo nell’approfondimento della sua conoscenza.

Quanto al secondo punto, richiamo quanto giustamente si dice nel documento che ho predisposto e condiviso con il signor Sindaco. Si afferma che all’inizio è stato difficile, ma si sa che i processi di trasformazione della persona e, ancor di più, della comunità, sono lunghi e originano, magari, da un trauma. Quel trauma Guardiagrele lo subì nel 1998, ma poi è stato elaborato, assorbito, portato a maturazione per far emergere quel che Guardiagrele è: una città accogliente e sensibile nell’anima; una città disposta a “spezzare” quell’anima per darla a chi non l’ha integra (ferita) sol che se ne dia l’occasione, l’opportunità.

Questa elaborazione è stata possibile grazie a tutto ciò che il Prof. Ferro ha rappresentato. Perché in lui si condensa un insieme fatto di condizioni oggettive (il luogo) e di persone (collaboratori ad ogni livello). Lavorare sulle relazioni tra le persone è diventato, anche al di fuori della clinica, più semplice. E’ stato possibile assumere si di sé (da parte di ciascuno) la diversità in maniera più semplice o, addirittura, naturale. L’approccio con la condizione della malattia mentale ha consentito di guardare alla diversità con una atteggiamento meno diffidente. Ha consentito di elaborare una identità più vera non solo dei singoli, ma della comunità (guardiese) intera. Ci troviamo di fronte ad un rapporto “generativo” continuo che anche grazie a questa significativa presenza, la città ha rinnovato e rinnova ogni giorno. E volete che ha rappresentato tutto questo non debba, anche nel nome, sentirsi parte di questa comunità.

Ma questo è un patrimonio troppo importante perché vada perduto ed è per questo che, tornando a quel che dicevo all’inizio, questa non è cerimonia di vuote formalità, ma momento nel quale ciascuno assume o ri-assume una responsabilità.

Lo ha chiarito in maniera trasparente proprio il prof. Ferro quando ha levato la voce contro i tentativi, ancora attualissimi, di disgregazione del nostro ospedale. Diciamolo con franchezza: se il SS. Immacolata – che è stato il grembo nel quale questo rapporto generativo è nato – rapporto nel quale la clinica e la comunità si sono reciprocamente nutrite l’una dell’altra consentendo alla prima di crescere e diventare quel che è e alla seconda di riscoprire l’anima, come prima ho detto) – ebbene se questo grembo viene neutralizzato, non avremo più un parto, ma un aborto.

Qui va detto in maniera chiara che l’impegno da assumere non è quello di tutelare un campanile, ma quello di garantire una sanità vicina alla gente, una sanità dal volto umano – con ciò parafrasando un’espressione del prof. Ferro ripresa dai suoi collaboratore e a me molto cara.

Questo è possibile, e lo dico al mondo accademico oggi rappresentato al massimo livello. La psichiatria di Guardiagrele ha dimostrato la possibilità di quel che a molti sembra impossibile e, cioè, che il dialogo con l’Università può essere condizione di arricchimento e crescita reciproca. Tutto questo è ancora possibile se consideriamo che il SS. Immacolata è sede di due cliniche universitarie. Chiedo al Rettore e chiedo al Preside di Facoltà, ma lo chiedo a tutti: lavoriamo insieme perché la sanità innanzitutto ci sia, possa fare qualità; dove è necessario e doveroso possa fare eccellenza, ma, in ogni caso, sia vicina alla gente. Non è facile, è chiaro, ma credo che sia necessario provarci.

Questi, a mio avviso, devono essere i frutti di un lavoro così importante. Giustamente nella relazione al congresso di Chieti (dove ciò che viviamo oggi ha avuto origine) si diceva che è stato il lavoro di squadra a produrre il frutto ed è stato l’insieme di queste condizioni a portare i risultati che diversamente non sarebbero germinati.

Ma non avrebbe nessun senso essere qui, se da qui non si partisse per progettare un futuro possibile.

Proprio a questo penso quando dico che da questo momento nascono ulteriori responsabilità: il lavoro fatto in questi anni in tanto può avere un senso in quando ci si impegna perché non vada perduto. Il Convegno che cito per la terza volta, infatti, si proponeva di inaugurare ciò che dai temi teorici e clinici propugnati dal Prof. Ferro, dovrà adesso evolvere e germinare.

[E così che si chiude il cerchio, il ciclo che negli anni ci ha portato ad allargare la nostra comunità con alcuni cittadini onorari: nel 2008 Doris Blumenkranz e Evelina Graubardt, internate a Guardiagrele nel 1941-1943 sono cittadine onorarie perchè da Guardiagrele hanno ricevuto e, con esse, si dimostra come i valori della solidarietà, del pluralismo e dell’incontro siano profondamente incarnati nella nostra storia; il prof., Ferro è cittadino onorario è cittadino onorario perché quei valori ha contribuito a rivitalizzare. E’ come dire che è cittadino onorario di Guardiagrele chi ha a che fare con questa materia].

Il conferimento della cittadinanza (con-cittadinanza) è, quindi, l’onore che si rende con gratitudine a chi ha consentito di (ri)maturare tutto questo; a chi con semplicità ha attirato le attenzioni di una comunità che si è fatta sempre più sensibile ai problemi della marginalità; a chi oggi gioisce (“mi ha acceso un sole”, mi ha detto quando le ho comunicato telefonicamente questa iniziativa) – è capace di gioire (ecco perché si parla di semplicità) – per un dono che compensa quel che si è dato; a chi non si è fatto scudo della scienza ed ha, invece, con disponibilità all’ascolto e all’incontro, saputo dialogare, consigliare, indirizzare; a chi consegna a tutti non un’idea, ma un fatto; a chi ha saputo costruire intorno a sé una squadra che oggi, insieme a tutta la comunità di Guardiagrele, ha ancora voglia di sperare – e qui rubo il finale della relazione al congresso di Chieti - che l’età del Ferro continui, in realtà, ad essere ancora l’età dell’oro.

venerdì 13 gennaio 2012