mercoledì 2 giugno 2010

Per la festa della Repubblica...alla VI fiaccolata


Con la fondazione Civitas che sto costituendo insieme ad alcuni amici, abbiamo organizzato la VI fiaccolata per la festa della Repubblica...una iniziativaben più "istituzionale" di altre che si sono viste in giro e delle quali vorrei parlarvi...

Intanto, se volete, leggetevi il mio intervento...un po' lunghetto...

Il tema della festa della Repubblica è scritto nella parola stessa che, realizzata e trasformata in fatto, vorremmo celebrare.

Repubblica sta a significare cosa pubblica e, in fondo, cosa di tutti; così bisogna intenderla, andando oltre la facile ricerca dell’etimologia; essa è evento, fatto che ci accomuna e che ci fa riconoscere in un medesimo sentire; nei valori, cioè – come ci siamo detti tante volte – scritti nella Costituzione e che a tutti appartengono come cittadini, membri di una comunità.


Si fa festa alla Repubblica per riprendere e mai interrompere una riflessione che con la memoria, nella categoria del tempo, ci porta alla scelta del 2 giugno 1946 (o, ancora, al 1860-1861) e con la consapevolezza del nostro esistere in questo luogo, nella categoria dello spazio, ci porta a Guardiagrele per ripartire alla volta di orizzonti ben chiari anche se non vicini.

Si fa festa per riprendere in carico i principi che dodici milioni di elettori scelsero – anche per noi – dando vita a quello che Pietro Nenni (10 marzo 1947) definì lo spirito del 2 giugno, uno spirito che si può riassumere in quattro principi generali: gli elettori repubblicani del 2 giugno – precisava – volevano uno Stato unitario, volevano uno Stato democratico, volevano uno Stato laico e volevano uno Stato sociale.

Quanto questo sia vero e quanto la Costituzione repubblicana abbia risposto a questa vocazione non è possibile dirlo in questa sede; è un impegno che prendiamo per il futuro.

Certo è che quella scelta, fatta non da noi ma che noi viviamo e difendiamo, già pone il tema del rapporto con gli altri, un rapporto fatto, come ho detto all’inizio, di una relazione nel tempo e non solo nello spazio.

Ecco perché il titolo di questa VI fiaccolata degli enti locali, delle associazioni e della società civile, invita in maniera chiara – forse retorica ma non certamente vuota – ad un impegno per una comunità solidale, scuola di condivisione.

Questo è, a ben vedere, il DNA di una comunità repubblicana nella quale, per dirla con le norme più dense della I parte della Costituzione, si traduce il precetto della corresponsabilità e dell’uguaglianza.

Parlare di comunità solidale non è facile, però, non perché è complesso il senso da dare a queste parole ma perché è difficile scorgerne i tratti in quella che Zygmunt Bauman definiva già dieci anni fa, come società (di modernità lui parlava) liquida.

In effetti, se prendiamo in prestito le categorie della fisica ce ne rendiamo conto in maniera quasi plastica.

La comunità solidale è quella che ha (o dovrebbe avere) come propria regola quella della solidarietà e, quindi, quella che, per questa scelta, diventa solida, cioè compatta, senza cavità o vuoti; una comunità nella quale i cittadini (che ne sono membri) sono legati da vincoli di fratellanza e reciprocità.

E’, per dirla con Enzo Bianchi (L’altro siamo noi), quella nella quale ciascuno, prima di tutto, prende consapevolezza del fatto che esiste in quanto in relazione con altri (lo scorso anno parlavamo di scuola di relazioni) e dà al dialogo il senso dell’intreccio tra linguaggi, sensi, culture, etiche, la spinta non verso l’annullamento delle differenze e la passiva accettazione delle convergenze ma il cammino verso un “luogo” nel quale le differenze vivono allo stesso titolo delle convergenze.

Noi tutti, però, siamo persone sufficientemente intelligenti par capire che tutto questo non è un dato di fatto, una realizzazione compiuta ma l’oggetto di un lavoro che insieme dobbiamo compiere, il fine dell’azione che ogni cittadino, ispirato da quei valori comuni, dovrebbe portare avanti, l’edificio che nella complementarietà dei rapporti ciascuno deve costruire.

E’ singolare rendersi conto del fatto che tra la teoria e la pratica delle relazioni sociali ci sia una sostanziale corrispondenza.

La difficoltà nella realizzazione di questo progetto non è forse la stessa che Bauman rintraccia nelle cause della liquidità della fase che attualmente si vive? Il fatto che – come ancora una volta la fisica ci insegna e Bauman sottolinea – la società liquida sia una società instabile, nella quale è difficile mantenere una forma (e, magari, lo sguardo su principi condivisi) ed è quanto mai facile mutarla, non è forse uno scenario nel quale diventa complicato collocare una comunità solidale?

E, ancora, se la comunità solidale è un obiettivo da realizzare bisogna chiedersi dove ci troviamo e se un edificio in costruzione possa già essere una scuola di condivisione, come il tema di questa marcia suggerisce.

Problemi, come si vede, e ben poche soluzioni.

Problemi che, ancora una volta, il marciare insieme ci invita ad elaborare e individuare come stimolo per un lavoro che la comunità deve darsi come imperativo.

Questo movimento, però, non nasce da solo. E’ necessario stimolarlo, cercarlo, scovarlo valorizzando quanto in molte esperienza vive, a volte anche allo stato primordiale.

Questa fiaccolata ha avuto bisogno di un’organizzazione, non è nata da sola; non ci siamo ritrovati casualmente ma abbiamo risposto ad un invito nel quale erano chiari gli elementi essenziali che l’hanno resa possibile. Un soggetto della società civile, una fondazione - che ha nel suo nome il programma di un impegno faticoso (Civitas) – se ne è fatta carico, insieme ad una organizzazione che da quasi cinquanta anni vive nella nostra città, il CAI.

Questo ci vuole: uno stimolo, una guida, un suggerimento e, soprattutto, la possibilità a tutti concessa di costruire insieme dando spazio a contributi che spesso attendono solo di essere cercati e messi in comunicazione. Come ci vuole senso della realtà che fa essere la comunità anche bella, cioè come deve essere, nella quale ciascuno è al proprio posto, dove nessuno confonde ruoli, comprende se e come essere presente, cosa e come dirlo, è consapevole della necessità di andare oltre la tutela di interessi di parte o corporativi intuendo le necessità del momento e anticipando il futuro.

Ecco in quale modo la comunità solidale, non completamente realizzata ma complessivamente elaborata, può diventare scuola.

Certo, torno a ripeterlo, la comunità oggi suona più come un’astrazione che come un fatto.
Ne è una metafora la questione dell’unità nazionale! Massimo Cacciari, in un recente articolo, la affronta citando Gioberti, per il quale l’Italia è un’astrazione, un desiderio, non un fatto, e, più ancora, Leopardi per il quale gli italiani sono autori e attori protagonisti nella “strage delle illusioni”.

Allora mi chiedo, ancora una volta, richiamando la riflessione di Cacciari e parafrasandone alcuni interrogativi: Se ridiamo di onore, virtù, bene comune, senso della vita, come potremmo mai formare una comunità solidale? Se nulla si considera degno di rispetto, di nulla si ha vergogna, se ciascuno cerca di fare degli altri “uno sgabello a se stesso”, se il “conversare” che è il mezzo con cui altrove ci si intende o almeno fraintende, qui è lo strumento che moltiplica l’odio e la disunione, come pensare ad una comunità che sia foedus, autentico patto tra chi la abita, tra i cittadini solidali pur nei loro distinti interessi e animati da comuni finalità?

E’ possibile costruire una comunità solidale se i “leganti sociali” sono illusioni…ogni individuo tende a far centro da sé…l’esercizio della virtù e del dovere non porta alcun frutto…stima e fama di cui uno gode sono refoli di vento, dagli effetti passeggeri quanto quelli di un sondaggio?

Possiamo noi superare la comunità guardaroba, come ancora Bauman la definisce? Quella, cioè, nella quale ci si spoglia di ciò che distingue una persona dall’altra e ci si sente gruppo di fronte ad uno spettacolo che crea solo l’illusione di condivisione…che non dura molto più a lungo dell’eccitazione prodotta dalla performance?

Possiamo sentirci comunità vera e, quindi, solidale se non ci preoccupiamo di dismettere gli abiti della diversità di origini, opinioni, storie individuali e ci accontentiamo di annullare gli impulsi socializzanti, le spinte verticali, l’aspirazione verso i carismi più alti?

Siamo realmente consapevoli del fatto che, in questo modo, diamo credito a ciò che perpetua e moltiplica le solitudini?

La lettura del momento attuale è il frutto del panorama che Paolo Di Giannantonio, ospite del forum lo scorso 22 maggio, ha descritto con riferimento al tema dell’informazione.Dopo avere notato che c’è un’appiattimento su poche (due) posizioni dominanti, ha osservato: Io non posso accettare questo discorso perchè la verità, probabilmente, non sta nè da una parte nè dall'altra e sta in una terza, in una quarta, in una quinta parte.

La comunità solidale, parafrasando questo ragionamento, è quella che si fa carico di queste verità diverse, di queste storie che attendono solo di essere messe in comunicazione e in dialogo; è quella che riesce a manifestarsi all’esterno come è avvenuto recentemente nella nostra città in due occasioni che parlano, fortunatamente, di una Guardiagrele che cammina tra le difficoltà che ho prima ricordato.

Sono gli eventi nei quali la comunità solidale si è trasformata in fatto.

Il primoo è la Casa di accoglienza della Caritas, spazio nel quale vogliamo tentare di ricostruire vite fragili; l’altro evento è la manifestazione dello scorso 22 maggio, “Insieme per sentirsi bene”, la metafora più bella per raccontare un impegno possibile tra attori diversi.

Questo è il dialogo, radice della solidarietà, nello spazio della nostra Guardiagrele e verso territori lontani.

Ma il dialogo va coniugato anche nella dimensione del tempo, come si diceva all’inizio.
Noi siamo in dialogo con chi 64 anni fa scelse anche per noi la Repubblica e ce la consegna perchè la preserviamo da chiunque voglia metterne in discussione l’esistenza.

Siamo in dialogo con i patrioti della Maiella, quelli che per primi entrarono a Bologna il 21 aprile 1945 dove oggi si inaugura un monumento in pietra in onore di quanti avevano in mente qualcosa che andava oltre il loro personale orizzonte o quello limitato di una parte (questo li faceva essere “partigiani senza partito e soldati senza stellette”).

Siamo in dialogo con chi, ancora prima, ha lavorato per l’unità d’Italia, credendo che quella fosse la meta da raggiungere. Un dialogo, questo, interessante e coerente con il tema di oggi perché la questione non era solo quella di mettere insieme territori ma di creare uno spirito unitario, quello, forse, che 85 anni dopo Nenni definì del 2 giugno e che, invece, mancava all’indomani dell’unità, se D’Azeglio si trovò a dire che fatta l’Italia , bisogna fare gli italiani.

Con queste riflessioni sulle quali sarebbe bello scambiarsi opinioni, riflessioni, punti di vista, vogliamo consegnarci una reciproca responsabilità a prestare attenzione alle lezioni di questa scuola di condivisione.

Una lezione che chiede di essere concretamente messa in pratica con strutture di solidarietà che rendano meno fluidi e sfuggenti i rapporti tra persone, che rendano il dialogo una strada realmente percorribile per capire dove sta il problema a agire per superarlo.

C’è e ci sarà solidarietà per i nostri figli, per i giovani, per i disabili, per i poveri, per chi non ha lavoro? C’è possibilità di riscatto? C’è una corrispondenza tra la quotidiana fatica di chi ha perso il lavoro, di chi a stento vive con una pensione ai minimi termini, del ricercatore che non vede vicino il risultato del suo impegno, dei tanti precari della scuola che vedono ridursi sempre più le possibilità di una definitiva sistemazione, delle migliaia di carcerati che vivono quotidianamente sulla pelle la violazione di essenziali diritti della persona, di chi vive l’imminenza di pericoli ambientali che non sappiamo ancora se definitivamente scampati, di chi subisce l’esclusione dalla sua stessa famiglia…c’è corrispondenza tra questi mondi e quello che vogliamo costruire? Non è forse necessaria una maggiore attitudine all’ascolto? E se l’attitudine c’è ma non è completo il quadro di fronte al quale l’ascoltatore si pone, è ancora possibile allargare lo spettro?
In questo momento, in questa sede, vogliamo prendere in carico, ognuno per le responsabilità di cui è investito, la consegna di fare in modo che prima la nostra città e poi chi ne fa parte si sentano insieme comunità perché insieme vanno a scovare la terza, la quarta, la quinta possibilità di verità.

Vogliamo fare in modo che sia veramente così.

Il nostro impegno, allora, è quello di far maturare queste consapevolezze, dare risposte agli interrogativi perché il tempo della comunità solidale è possibile, è la stagione verso la quale ci poniamo come il contadino.

Le stagioni, diceva Giorgio La Pira, non le fa il contadino; vengono, e lui le aiuta. Si orientano tutte verso l'estate, verso i giorni della maturazione.

Viva l’Italia! Viva la Repubblica! Viva la Costituzione! Viva Guardiagrele!


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